Guerre e politica, fedeltà e tradimenti, vittoria e sconfitta: sono gli elementi-chiave di una vicenda accaduta all’inizio del XVIII secolo, da cui scaturisce un racconto intrigante, ricco di azione, tensione e colpi di scena, sospeso fra thriller e noir.
L’evento è una narrazione storica dal titolo Tortona 1706: assedio alla fortezza, rappresentata varie volte in Piemonte a partire dal 2015.
Lo spettacolo racconta contesto, personaggî e retroscena di un assedio condotto contro il Castello di Tortona nell’autunno 1706, durante la Guerra di Successione Spagnola.
La formula scelta per l’iniziativa è ispirata al teatro di narrazione: le sue rappresentazioni si articolano lungo percorsi guidàti a tappe.
A condurle Davide Tansini: ideatore e narratore della manifestazione, lo storico ha ricostruito la vicenda del 1706 grazie a personali ricerche archivistiche e bibliografiche.
Sviluppato con stile affabile, colloquiale e vivace, il monologo di Davide Tansini non si limita alla cronistoria e alla biografia.
Invece, diviene un’occasione intrigante per raccontare a tutto campo il periodo storico a cavallo fra Seicento e Settecento e l’eredità che ha lasciato: arte, curiosità, economia, società, tradizioni, usi.
L’ambientazione storica di Tortona 1706: assedio alla fortezza si colloca nel primo decennio del XVIII secolo, quando il Tortonese e l’odierno Piemonte orientale erano parte del Ducato di Milano.
Nel novembre 1700 la morte di Carlo II d’Asburgo, re di Spagna e duca di Milano, aprì una lotta per la successione ai dominî della Corona ispanica, che si estendevano fra Europa, Africa, America e Asia.
I principali pretendenti al trono spagnolo divennero Filippo V di Borbone, nipote del re di Francia Luigi XIV (il Re Sole), e Carlo d’Asburgo, figlio dell’imperatore Leopoldo I.
Il lungo conflitto nato dalla disputa ereditaria (noto come Guerra di Successione Spagnola) si combatté in numerosi teatri sparsi per il globo terrestre e coinvolse numerosi stati europei, schieràti con i Borbone o con la parte avversaria, che era riunita nella Grande Alleanza della Lega di Augusta, già costituita negli Anni Ottanta del Seicento.
Nello scenario italiano, il duca di Savoia Vittorio Amedeo II, che in precedenza aveva fatto parte dell’intesa antifrancese, appoggiò inizialmente il Re Sole, agevolando l’occupazione borbonica del Ducato di Milano, avvenuta nel 1701.
Lo schieramento del duca sabaudo era però dettato dalla pesante ingerenza di Luigi XIV, da cui il sovrano piemontese desiderava affrancarsi. Nel 1703, con la firma di un trattato segreto, il duca ritornò nella Grande Alleanza, passando al fianco degli Asburgo.
Fino al 1706 le operazioni militari nella Valpadana videro la prevalenza delle armate transalpine. Fra la primavera e l’estate 1706 la stessa Torino, sede della corte savoiarda, fu posta sotto assedio.
Nello stesso periodo il comandante delle armate asburgiche, il principe Eugenio di Savoia-Soissons, cugino del duca stesso, condusse una serie di operazioni nell’Italia settentrionale con lo scòpo di portare soccorso alle truppe sabaude.
La Battaglia di Torino, combattuta il 7 settembre 1706, vide la disfatta dell’armata francese, i cui resti furono costretti a ritirarsi oltre le Alpi o verso il Ducato di Milano.
Lanciàti all’inseguimento delle formazioni borboniche, Eugenio e Vittorio Amedeo II penetrarono nel territorio ducale, occupandone i centri abitati e ponendone sotto assedio le principali piazzeforti.
Insieme a quelli di Alessandria, Serravalle Scrivia e Valenza, il presidio di Tortona (con il suo possente Castello sulla sommità del Colle Savo) faceva parte di un ideale quadrilatero fortificato posto tra i córsi della Scrivia, del Tanaro e del Po, cui si aggiungeva Casale Monferrato (sotto il dominio del casato Gonzaga-Nevers). Per la campagna del principe Eugenio era fondamentale ottenerne la conquista entro l’inverno.
Avviò così delle trattative segrete con un capitàno della piazzaforte (forse, il castellano spagnolo don Antonio de la Cabra). Secondo il patto, la guarnigione tortonese si sarebbe arresa all’arrivo delle truppe asburgiche: compiuta l’occupazione della fortezza, il medesimo ufficiale avrebbe mantenuto il comando del Castello.
Il 13 ottobre lo schieramento alleato si presentò davanti alle mura della città e intimò la resa al presidio. Tuttavia, questa non arrivò: a dispetto dell’accordo, il 15 ottobre i difensori evacuarono le difese del centro abitato e si ritirarono nel Castello.
Il comandante delle truppe borboniche, il maresciallo spagnolo Francisco Ramírez y Valdés, aveva infatti deciso di resistere a oltranza, pur dovendo scontare con il passare déi giorni numerose diserzioni fra i suoi uomini.
A guidare le operazioni d’assedio fu posto il generale Franz Fortunat von Isselbach (1663-1734). Dapprima tentò di minare le mura del Castello; poi fece piazzare alcuni cannoni di grosso calibro sulle alture attorno alla fortezza, grazie ai quali gli artiglieri assedianti riuscirono ad aprire una breccia nelle mura il 28 novembre.
Il 29 novembre le truppe asburgiche si prepararono per l’assalto finale. Dopo aver intimato per l’ultima volta la resa, gli attaccanti aggredirono il Castello e per quattro volte furono respinti dalla valorosa resistenza del presidio. Al quinto assalto riuscirono ad espugnare la fortezza.
Quasi tutti i militari trovàti nel Castello furono massacràti al momento della conquista. Lo stesso Francisco Ramirez y Valdés fu trucidato e anche Antonio de la Cabra trovò la morte. Déi circa trecento uomini presenti nel Castello prima dell’attacco meno di dieci furono risparmiàti.
Pochi giorni prima anche le piazzeforti di Alessandria e Pizzighettone si erano arrese. In séguito, toccò a Casale Monferrato. Nel marzo 1707 Luigi XIV concordò con l’imperatore Giuseppe I l’evacuazione déi restanti presidî borbonici del Ducato milanese, che furono abbandonàti durante la primavera successiva.
La Guerra per la Successione di Spagna era destinata a concludersi solo nel decennio seguente ma nel frattempo per Tortona e per le terre lombarde stava iniziando una nuova fase storica: al dominio della corte di Madrid subentrava quello di Vienna; terminava il periodo della Lombardia spagnola e cominciava quello della Lombardia austriaca.
Il 1º novembre 1700 morì a Madrid il re di Spagna Carlo II d’Asburgo (1661-1700). Dalla fine degli Anni Settanta del Seicento aveva governato su un impero che si estendeva fra Europa, Africa, America e Asia.
Nell’area italiana i suoi dominî comprendevano i regni di Napoli, di Sardegna e di Sicilia, lo Stato dei Presidi e il Ducato di Milano; inoltre, la Corona spagnola esercitava una notevole influenza sul Granducato di Toscana e sulla Repubblica di Genova.
Carlo non aveva eredi diretti, nonostante due matrimonî con Maria Luisa di Borbone-Orléans (1662-1689) e con Maria Anna di Pfalz-Neuburg (1667-1740). L’assenza di figlî era stata probabilmente causata dalle precarie condizioni di salute del sovrano.
Tutto ciò aveva avviato diverse manovre politiche e diplomatiche, messe in atto delle principali corti europee per non trasformare la scomparsa della linea dinastica degli Austrias in un collasso dell’intero impero spagnolo e del sistema di potere su cui si sosteneva.
I dominî di Carlo II pativano da tempo una grave crisi economica, politica, sociale e finanziaria, che le pur significative riforme avviate dal sovrano negli Anni Ottanta del XVII secolo non avevano potuto contrastare efficacemente.
In particolare, la debolezza politico-militare della Corona spagnola si era dimostrata nell’esito delle guerre sostenute nel córso del Seicento, che l’avevano spesso contrapposta al Regno di Francia guidato da Luigi XIV di Borbone (il Re Sole, 1638-1715).
Varî dominî degli Austrias erano stati a più riprese fagocitàti dall’espansionismo borbonico, nonostante l’intervento di numerosi stati interessàti a limitare la potenza del monarca francese.
Proprio per contrastare il Re Sole nel 1686 il Sacro Romano Impero, la Repubblica delle Sette Province Unite, gli elettoràti di Baviera, di Sassonia e del Palatinato, il Regno di Svezia, la Marca del Brandeburgo, l’Arciducato d’Austria, il Ducato di Savoia e il regno del Portogallo (oltre a quello di Spagna) avevano sottoscritto una Lega ad Augusta: questa coalizione era stata ratificata nel 1689 anche dai regni d’Inghilterra, Scozia e Irlanda ed era stata denominata Grande Alleanza.
Principali contendenti in lizza per spartirsi l’eredità di Carlo II erano lo stesso Luigi XIV e l’imperatore Leopoldo I d’Asburgo (1640-1705), entrambi cognati del sovrano spagnolo.
La questione era molto sentita dagli stati d’Europa, perché l’acquisizione integrale déi dominî degli Austrias da parte di un Bourbon de France o degli Asburgo d’Austria avrebbe sconvolto l’equilibrio politico del continente a favore dell’uno o dell’altro casato, con potenziali ripercussioni militari ed economiche di vasta portata.
Per congiurare l’eventualità che la successione al trono di Spagna degenerasse in un conflitto, già dal 1668 si erano studiate e ratificate diverse intese che cercavano di mediare tra gli interessi delle corti rivali e déi rispettivi sostenitori.
Gli sforzi diplomatici non erano stati però risolutivi e la scomparsa di Carlo II nell’autunno 1700 fece riemergere tutta la problematicità della questione, peraltro complicata dal testamento del sovrano spagnolo.
Firmato trenta giorni prima della sua morte, il documento assegnava i dominî degli Austrias al duca d’Angiò Filippo di Borbone (1683-1746): pronipote di Carlo II, era figlio del delfino di Francia Luigi (1661-1711) e, quindi, nipote dello stesso Re Sole.
Filippo era perciò secondo nella linea di successione a Luigi XIV ma le ultime volontà del defunto sovrano ponevano esplicitamente la condizione che per ottenere la Corona di Spagna lui e i suoi discendenti avrebbero dovuto rinunciare a ogni diritto sul trono francese.
Il Re Sole si affrettò a riconoscere il nipote quale nuovo monarca di Spagna con il nome di Filippo V e gli fornì mezzi e truppe necessarie per garantire la sicurezza déi suoi nuovi dominî.
Come negli altri territorî europei già appartenuti a Carlo II, tra gennaio e aprile 1701 contingenti borbonici affluirono nel Ducato di Milano, rinforzandone i presidî. Erano guidàti dal maresciallo Nicolas de Catinat de La Fauconnerie (1637-1712). Il governatore dello stato lombardo, il principe Carlo Enrico di Lorena-Vaudémont (1649-1723), giurò fedeltà a re Filippo.
Leopoldo I e il suo fronte rigettarono la successione del duca d’Angiò al trono iberico, sostenendo i diritti dell’arciduca Carlo d’Asburgo (1685-1740), figlio del sovrano viennese. In qualità di imperatore, Leopoldo rivendicò la suprema giurisdizione sull’Estado de Milán, inviandovi un’armata al comando del principe Eugenio di Savoia-Soissons (detto il Gran Capitano, 1663-1736).
Alle avvisaglie del nascente conflitto nella Valpadana diversi stati italiani avevano dichiarato la propria neutralità: il Ducato di Parma e Piacenza, la Repubblica di Venezia e quella di Genova, il Granducato di Toscana e gli Stati della Chiesa. Invece, il Ducato di Modena e Reggio e quello di Guastalla si erano schieràti a fianco degli Asburgo.
Ferdinando Carlo di Gonzaga-Nevers (1652-1708), titolare déi ducati di Mantova e del Monferrato, pur formalmente vassallo dell’imperatore, aveva sottoscritto una convenzione segreta con Luigi XIV che aveva agevolato l’accesso delle truppe borboniche alle terre lombarde.
Il duca Vittorio Amedeo II di Savoia (1666-1732), che pure vantava una parentela di settimo grado con Carlo II, dal 1696 era alleato con il Roi Soleil, benché in precedenza avesse fatto parte della Lega di Augusta.
Dopo la morte dell’ultimo Austria il nobile sabaudo aveva inizialmente cercato di propiziare sia gli Asburgo sia i Borbone, sperando di trarne vantaggî territoriali lungo i confini con il Ducato milanese. L’allestimento della spedizione francese in Lombardia lo aveva costretto a firmare un accordo con Luigi XIV, rinnovando l’alleanza con il monarca transalpino e garantendo il libero passaggio déi soldati borbonici attraverso il suo stato.
Nell’autunno 1701 la crisi europea si trasformò in guerra aperta con la ricomposizione della Grande Alleanza. Ora, però, la Lega era priva del sostegno svedese e vedeva schieràti il Regno di Spagna, quello del Portogallo, l’Elettorato di Baviera, il Ducato di Savoia e quelli di Mantova e del Monferrato a fianco déi Borbone.
L’andamento poco favorevole della campagna francese nella Valpdana contro le truppe del principe Eugenio di Savoia spinse il Re Sole a sostituire nel medesimo 1701 il maresciallo De Catinat con il generale François de Neufville, duca di Villeroy (1644-1730). Preso prigioniero a Cremona nel febbraio 1702, quest’ultimo fu rimpiazzato dal duca Luigi Giuseppe di Borbone-Vendôme (1654-1712).
Benché i primi mesi del conflitto vedessero una moderata prevalenza dello schieramento borbonico nell’Europa centrale, sul fronte padano nessuna delle due parti conseguì risultàti decisivi.
In particolare, il duca di Borbone-Vendôme non riuscì a ottenere uno degli obiettivi strategici fissàti dal Secrétariat de la Guerre: sconfiggere le forze imperiali in Valpadana, costringerle alla ritirata oltre le Alpi Orientali e congiungere il grosso dell’Armée d’Italie con le truppe dell’Elettorato di Baviera.
Nel 1703 i sostenitori di Luigi XIV e di Filippo V subirono due significative defezioni. Nel maggio di quell’anno il re del Portogallo Pietro II di Braganza (1648-1706) firmò un trattato con il Regno d’Inghilterra, con il quale si impegnava a far entrare il proprio stato nella Grande Alleanza.
Nell’autunno dello stesso anno il duca di Savoia sottoscrisse a Torino un accordo segreto con Leopoldo I, nel quale accettava di passare nel fronte imperiale. In cambio, avrebbe ottenuto il controllo dell’Alessandrino, della Lomellina, del Monferrato e della Valsesia alla fine del conflitto, nel caso di vittoria contro i Bourbons.
Il voltafaccia savoiardo avrebbe provocato l’apertura di un fronte di guerra lungo il confine Sud-Est del Regno di Francia e avrebbe complicato le manovre e i rifornimenti dell’armata operante nella Valpdana agli ordini del duca di Borbone-Vendôme.
Informato dalle proprie spie in Italia, Luigi XIV aveva cercato di evitare l’intesa tra Vittorio Amedeo e Leopoldo offrendo al sovrano sabaudo il controllo dello Stato di Milano e del Monferrato in cambio della cessione del Nizzardo e della Savoia.
Il duca aveva rifiutato la controproposta del Re Sole: temeva che l’eventuale preminenza dell’Armée d’Italie avrebbe egemonizzato l’intera Penisola italiana a favore déi Borbone di Francia, compromettendo l’indipendenza o, addirittura, la stessa esistenza degli stati sabaudi.
La reazione di Luigi XIV fu decisa: i reparti ducali che operavano a fianco di quelli borbonici furono catturàti; tra la fine del 1703 e la prima metà del 1706 furono occupate la Savoia, il Nizzardo e ampie zone del Piemonte orientale; diverse piazzeforti savoiarde furono conquistate o póste sotto assedio.
Pur evitando che le armate borboniche dilagassero nella Valpadana, le truppe imperiali guidate dal principe Eugenio e quelle mercenarie del conte danese Christian Ditlev Reventlow (1671-1738) furono sconfitte fra il 1705 e il 1706 nelle battaglie di Cassano d’Adda e di Calcinato.
Dopo una grande vittoria riportata a Blenheim (o Höchstädt) nell’agosto 1704, la Grande Alleanza aveva conseguito l’importante risultato strategico di occupare l’Elettorato di Baviera. Lo sforzo bellico nell’Europa centrale si era alleggerito e ciò aveva permesso alle forze asburgiche di riorganizzarsi.
Il principe Eugenio di Savoia-Soissons (che era stato nominato presidente del Consiglio Aulico di Guerra e che aveva contribuito al successo di Blenheim) poté così inviare dall’Austria rinforzi al contingente impegnato in Valpadana e progettare il soccorso al Ducato di Savoia che, nonostante le difficoltà, era rimasto nella Grande Alleanza anche dopo la morte di Leopoldo I e l’ascesa al trono viennese di Giuseppe I (1678-1711), suo figlio.
In Piemonte la situazione era molto critica per Vittorio Amedeo II. Le sue truppe erano costrette a operare prevalentemente nelle vallate alpine: qui potevano avvantaggiarsi della conoscenza e della natura déi luoghi, lasciando però ai soldati borbonici la supremazia nelle zone pianeggianti.
Dal maggio 1706 la stessa capitale sabauda fu pósta sotto assedio dalle truppe del generale Luigi d’Aubusson duca de la Feuillade (1673-1725). La spedizione torinese era stata organizzata concentrando o producendo armi, vettovaglie e munizioni a Briançon, Susa, Crescentino, Chivasso, Casale Monferrato e Pavia. All’inizio di settembre rinforzi e rimpiazzi giunti con il passare delle settimane avevano accresciuto la sua forza a circa 44.000 uomini e oltre duecentotrenta pezzi d’artiglieria.
Nel frattempo il duca di Borbone-Vendôme era stato trasferito nelle Fiandre per cercare di contrastare la Grande Alleanza dopo la sconfitta subita durante la Battaglia di Ramillies quello stesso maggio. Al comando dell’Armée d’Italie lo aveva temporaneamente sostituito il duca De La Feuillade sino all’arrivo del duca Filippo II di Borbone-Orléans (1674-1726), nipote del Re Sole.
L’irruzione in terra piemontese della spedizione condotta dal principe Eugenio alla fine di agosto capovolse le sòrti del conflitto in Italia a sfavore déi Bourbons. Nella battaglia combattuta il 7 settembre davanti alle mura di Torino le forze congiunte déi due Savoia sconfissero l’armata assediante, che perse metà degli effettivi e quasi tutta l’artiglieria.
La disfatta costrinse alla fuga dal Piemonte le superstiti formazioni transalpine: parte verso la Francia e parte verso la Lombardia, dove il conte Jacques Eléonor Rouxel de Grancey barone di Médavy (1655-1725) aveva consolidato le posizioni borbonico-gonzaghesche nell’alto Mantovano dopo il passaggio del Gran Capitano.
Néi giorni centrali di settembre i resti del corpo d’assedio torinese e le altre truppe dirette verso Est raggiunsero il Ducato di Milano. Il governatore Carlo Enrico di Lorena-Vaudémont fu costretto ad approntare precipitosamente la difesa dello stato contro l’avanzata del principe Eugenio e di Vittorio Amedeo II, che dal 13 settembre stavano inseguendo i reparti borbonici.
Oltre la metà déi battaglioni arruolàti a presidio della Lombardia spagnola erano stati precedentemente distaccàti a Torino, nel Marchesato del Finale o agli ordini del barone di Médavy. Nella zona sudoccidentale del Ducato erano disponibili circa 2.500 uomini, compresi trecento mercenarî svizzeri stanziàti fra le piazzeforti di Valenza, Serravalle Scrivia e Tortona.
Collocato a poche centinaia di metri dal torrente Scrivia e a circa venti chilometri dal fiume Po, il caposaldo tortonese disponeva di un doppio ordine di difese: il centro abitato nella sorto nella piana era racchiuso da una cerchia muraria dotata di torri e bastioni; sulla sommità del Colle Savo, invece, era ubicato il Castello.
Di origine tardomedievale, questo fortilizio era stato riprogettato fra il quinto e il sesto decennio del XVI secolo, diventando una delle principali roccheforti del Milanesado.
Era strutturato su due livelli sovrapposti. La parte superiore (chiamata Forte Alto o Maschio) rappresentava il corpo di piazza e si sviluppava su una pianta quadrangolare i cui vertici orientali erano protetti da un bastione ciascuno. Nell’angolo Sud-Est, inscritto nel perimetro difensivo, si trovava la Rocchetta (o Roqueta): un quadrilatero fortificato che si protendeva verso il cortile d’armi racchiudendo una corte più piccola e una torre.
La porzione inferiore (detta Forte Basso) si raccordava al fronte occidentale del Maschio e assumeva la conformazione di un’opera a corona munita di tre bastioni rivolti verso Nord, Nord-Ovest e Ovest.
Il presidio era agli ordini del castellano don Antonio de la Cabra (?-1706). Originario della Murcia, nel 1689 aveva ottenuto da Carlo II d’Asburgo l’autorizzazione per effettuare a proprie spese una leva di quattrocentoventi fanti spagnoli da inviare in Italia. In quell’occasione, gli fu concessa la prelazione per la successione alla castellania tortonese (incarico non acquistabile direttamente perché nell’Estado de Milán la venalità degli ufficî pubblici era vietata dal 1632).
In servizio a Tortona fin dall’ultimo decennio del Seicento, don Antonio capitanava una guarnigione comprendente soldati di provenienza iberica che vivevano in città da anni e che lì avevano mogli e figlî.
Nel luglio 1706, di fronte alla minaccia rappresentata dalla spedizione del principe Eugenio di Savoia-Soissons verso Torino, il comando della piazza era stato rilevato dal maresciallo asturiano Francisco Ramírez de Jove y Valdés (?-1706).
Acquartieratosi presso il Convento della Santissima Trinità (o degli Agostiniani Scalzi), l’ufficiale spagnolo aveva diretto le operazioni di approvvigionamento e di fortificazione della piazzaforte: aveva fatto arrivare 1.500 guastatori per erigere fascinate attorno alle mura cittadine e rinforzare le opere esterne del Castello; aveva ordinato di raccogliere e ritirare in città tutti i beni trasportabili dal circondario; aveva fatto abbattere gli alberi attorno all’abitato; aveva rifornito il Castello di vino, acquavite e fieno.
Fra il 23 e il 26 agosto l’armata del Gran Capitano era transitata nel Tortonese (fra Voghera e Castelnuovo Scrivia) mantenendosi a debita distanza dal Colle Savo e dalla sua fortezza. Meno di un mese dopo, l’avanzata delle truppe imperiali dal cuore del Piemonte rendeva probabile l’eventualità di un assedio contro Tortona.
L’obiettivo del principe Eugenio era tuttavia occupare rapidamente quanto più possibile dello stato milanese, anche per non sostenere un elevato numero di blocchi attorno ai presidî borbonici durante la stagione invernale (che sarebbe iniziata di lì a poche settimane). Per risparmiare risorse di tempo, uomini e mezzi era quindi importante evitare gli assedî.
In effetti, tra l’ultima decade di settembre e l’inizio di ottobre le guarnigioni déi territorî nordoccidentali e centrali del Ducato poterono ritirarsi dalle loro posizioni senza troppe difficoltà. A Pavia il principe Wirich Philipp von Daun (1669-1741) consentì libera uscita ai soldati borbonici, facendo scortare a Susa i militari francesi e a Valenza quelli spagnoli.
Il 19 settembre lo stesso principe di Lorena-Vaudémont abbandonò il capoluogo lombardo e si portò a Cremona per costituire un’area di resistenza nella Lombardia orientale, fra le piazzeforti di Mantova e di Pizzighettone (che fu bloccata a partire dal 4 ottobre).
Milano fu occupata il 26 settembre e le truppe lì rimaste si ritirarono nel Castello, la cui difesa era allo spagnolo Juan Antonio Pimentel de Prado y Olazábal, marchese di Florida (1626-1708).
Un’altra zona di arroccamento lambiva i córsi della Bormida, del Po, della Scrivia e del Tanaro: comprendeva le fortificazioni di Casale Monferrato, Valenza, Serravalle Scrivia, Alessandria e Tortona.
Riguardo a queste ultime due località, il principe Eugenio contava di ottenerne il controllo senza sostenere lunghi assedî, bensì tentando un’opera di corruzione.
Il capitàno asburgico intavolò un negoziato segreto con il comandante della piazza alessandrina, don Francisco Colmenero y Gattinara de Valdéris (1642-1726). Entro il 10 ottobre la trattativa produsse un capitolato contenente le condizioni per la resa, di cui l’imperatore Giuseppe I fu messo a conoscenza.
Il sovrano fu informato anche di un «accord» verbale raggiunto per il capoluogo tortonese. Il patteggiamento si era svolto per interposta persona e il principe Eugenio aveva avuto come controparte un non meglio identificato «Comandante di Tortona». Questi aveva concordato la resa del caposaldo all’arrivo delle truppe imperiali, purché fósse confermato nel suo incarico dopo l’occupazione del presidio.
Forse, era una scaltra manovra per ingannare il Gran Capitano e guadagnare tempo in vista dell’inevitabile attacco alla piazzaforte. Oppure, un reale tentativo di tradimento da parte di un ufficiale che non voleva restare intrappolato in quella che ormai appariva la fazione soccombente.
Il principe Eugenio dichiarò espressamente all’imperatore che sperava nella conquista simultanea déi due presidî. Tuttavia, l’affair tortonese ebbe un esito molto differente rispetto a quello di Alessandria.
Qui, il 14 ottobre esplose uno déi depositi di polvere da sparo della città situato nella Cittadella (o Castello). Si fece largo l’ipòtesi di un sabotaggio e i sospetti ricaddero proprio su don Francisco, che il 21 ottobre si arrese nonostante la piazzaforte disponesse ancóra di munizioni e viveri sufficienti per proseguire l’assedio.
Il giorno precedente l’episodio alessandrino le truppe del principe Eugenio di Savoia-Soissons si erano presentate davanti alle mura di Tortona intimando alla guarnigione la resa.
L’esplosione della polveriera di Alessandria aveva spinto il comandante asburgico a portarsi là con una parte delle sue truppe, lasciando presso Tortona un distaccamento agli ordini del barone Franz Fortunat von Isselbach, in attesa della risposta all’intimazione.
Quello stesso pomeriggio era stata battuta una seconda chiamata, stavolta con la minaccia di appiccare il fuoco alle cascine tortonesi se il presidio non si fósse arreso entro la sera. Il termine era stato poi prolungato alla fine del giorno seguente grazie alla mediazione di un religioso locale.
La sera del 15 ottobre la guarnigione borbonica si era ritirata nel Castello: supportate dalla milizia civica, le truppe imperiali avevano occupato la città, acclamate dalla popolazione che in onore déi nuovi dominatori indossava galle di color verde.
I saluti festosi non avevano però risolto la situazione. Il piano segreto di impadronirsi rapidamente di Tortona era sfumato e il comando asburgico aveva dovuto predisporre l’assedio regolare della fortezza sul Colle Savo.
Il barone von Isselbach tentò dapprima di aggredire il Forte Basso accostandolo tramite opere di mina. A corto di ingegneri e di minatori, dovette desistere e attendere l’arrivo déi cannoni di grosso calibro necessarî all’apertura di una breccia nelle mura castellane.
Come nuovo fronte d’attacco fu scelto quello Sud-Est del Forte Alto, prospiciente la Strada Montana (o alla Montagna) che si dirigeva verso la località di Vho (lungo gli attuali percorsi di Via Fausto e Serse Coppi e della Strada Levante del Castello). Qui furono impiantate due batterie di pezzi d’artiglieria.
Queste operazioni durarono per tutto il resto di ottobre e per buona parte di novembre, consentendo ai quadri borbonici di tentare almeno un’azione per sostenere la guarnigione bloccata nella fortezza tortonese.
I soldati imperiali catturarono una spia che, travestita da ufficiale asburgico, aveva cercato di introdursi nel Castello. Interrogato, l’individuo rivelò che il suo scòpo era esortare il comandante del presidio a resistere perché entro quindici giorni il principe di Lorena-Vaudémont gli avrebbe inviato rinforzi. L’infiltrato fu poi condotto di fronte alle mura della fortezza e impiccato sotto gli occhî degli assediàti.
Nella seconda metà di novembre l’area di resistenza nel Piemonte sudorientale era stata ormai disarticolata: Alessandria e Serravalle Scrivia si erano arrese, le truppe asburgiche compivano incursioni néi dintorni Valenza, le guarnigioni di Casale Monferrato e di Tortona erano bloccate néi rispettivi castelli.
La previsione che il fronte borbonico in Lombardia fósse destinato a soccombere era ormai diffusa. Lo stesso principe Eugenio scrisse all’imperatore che dal Castello tortonese fuggivano quotidianamente dai venti ai quaranta disertori.
I rinforzi millantàti dalla spia non arrivarono mai e il comando della falcidiata Armée d’Italie non poté neppure progettare concrete spedizioni di soccorso.
Invece, giunsero al corpo d’assedio tortonese i cannoni di grosso calibro da impiegare contro la fortezza sul Colle Savo. Furono dispiegàti in due batterie (una costituita da quattro pezzi) presso il Convento déi Cappuccini, a Nord del Forte Alto.
Il 28 novembre gli artiglieri imperiali riuscirono ad aprire una breccia nelle mura Nord-Est del Maschio, consentendo al barone von Isselbach di predisporre l’attacco finale per il giorno successivo.
Il 29 novembre le truppe destinate all’assalto furono radunate attorno al Maschio del Castello: néi pressi del varco praticato il giorno precedente e sul fronte Sud-Est. Poiché era stata aperta una breccia, la resa a discrezione fu formalmente intimata alla guarnigione, che era ridotta a meno di trecento uomini. I capi del presidio borbonico non accettarono e a mezzogiorno ebbe inizio l’ultima battaglia.
Furono necessarî cinque assalti per espugnare il Castello tortonese. Circa sessanta fra gli assediàti morirono durante il combattimento. In extremis, Antonio de la Cabra convinse Francisco Ramírez de Jove ad arrendersi ma questo non bastò a salvarli.
Infatti, l’attacco era stato ormai lanciato ed era stato emanato l’ordine di passare a fil di spada l’intera guarnigione. Furono così trucidàti fra i duecentodieci e i duecentoventi militari trovàti nella fortezza, compresi il maresciallo e il castellano.
Pochi scamparono allo sterminio. Un Uberläufer tedesco fu graziato perché ferito o, comunque, infermo: riuscì probabilmente a farsi riconoscere dai soldati imperiali suoi conterranei e a impietosirli. Non più di otto soldati borbonici si nascosero nel Castello e sopravvissero: forse, furono scoperti a massacro compiuto, quando la furia déi vincitori si era ormai placata.
In effetti, sùbito dopo la conquista le truppe asburgiche si diedero al saccheggio sistematico del Castello, che fu concesso loro nel termine di sei ore. Furono asportàti beni e provviste della fortezza; inoltre, fu rinvenuta una grossa somma di denaro.
Anche i corpi déi soldati uccisi e i pochi superstiti ora prigionieri furono depredàti déi loro averi. Sino al mezzogiorno del 30 novembre i cadaveri nudi del maresciallo e del castellano giacquero a terra; poi, furono sistemàti dentro casse di legno e sepolti sbrigativamente.
Tortona e la fortezza sul Colle Savo erano saldamente sotto il controllo imperiale. La cosa era avvenuta entro l’inverno, secondo i progetti del principe Eugenio di Savoia-Soissons.
Lo stato milanese era ormai avviato verso un futuro sotto l’insegna non più déi Borbone ma degli Asburgo. Il Castello di Milano ancóra resisteva ma le piazzeforti di Casale Monferrato e di Valenza si arresero al duca di Savoia entro lo stesso 1706. Il barone di Médavy non aveva più significativi spazî di manovra e Carlo Enrico di Lorena-Vaudémont (peraltro, sospettato di intelligenza con gli avversarî) rimaneva trincerato fra Cremonese e Mantovano.
Nel marzo 1707 Luigi XIV e Giuseppe I sottoscrissero una convenzione che prevedeva il ritiro pacifico verso la Francia di tutte le truppe borboniche ancóra presenti nel Nord Italia.
Durante quella stessa primavera la campagna militare nella Valpadana si concluse con l’evacuazione delle ultime piazzeforti e il rientro oltralpe dell’Armée d’Italie.
A sette anni dalla morte di Carlo II il Ducato di Milano ritornava fra i dominî del casato Asburgo, tranne le città e i territorî e che erano stati promessi al duca Vittorio Amedeo II di Savoia. Tuttavia, solo nel decennio successivo si giunse alla stabilizzazione della situazione politica.
Con i trattàti di Utrecht (1713) e di Rastatt (1714) Filippo V di Borbone ottenne la Corona di Spagna e i possedimenti d’oltremare già degli Austrias. A Carlo d’Asburgo (divenuto nel 1711 imperatore Carlo VI) toccarono parte gran déi dominî nordeuropei e italiani (compresi il Ducato di Milano, il Regno di Napoli, quello di Sardegna e lo Stato dei Presidi). Il Regno di Sicilia fu assegnato a Vittorio Amedeo II, che fu quindi elevato alla dignità regale.
Già nel 1701 Ferdinando Carlo di Gonzaga-Nevers era stato accusato di fellonia néi confronti dell’imperatore per il suo sostegno alla causa borbonica. Abbandonato dal Re Sole, nel 1707 era dovuto fuggire da Mantova mentre il Ducato di cui era stato sovrano finiva occupato dalle truppe asburgiche e incamerato fra i dominî imperiali.
Molti fra quelli che avevano sostenuto gli Asburgo in Lombardia durante la Guerra di Successione Spagnola ricevettero ricompense e gratificazioni. Per esempio, l’ex governatore di Alessandria don Francisco Colmenero y Gattinara de Valdéris fu posto al comando del Castello di Milano già nel 1707.
Non è nota l’identità del capitàno che trattò segretamente e per interposta persona la resa della piazzaforte di Tortona con il principe Eugenio di Savoia-Soissons. Così pure, non è possibile conoscere se per quest’ufficiale borbonico il negoziato rappresentasse un inganno o un reale tentativo di tradimento.
Nel primo caso, il personaggio si potrebbe identificare con il maresciallo Francisco Ramírez de Jove y Valdés. Durante l’assedio della fortezza dimostrò valorosa determinazione a resistere sino alle estreme conseguenze: atteggiamento, questo, poco confacente a un aspirante traditore.
In effetti, il comportamento dell’ufficiale asturiano fu giudicato eroico nella madrepatria. In suo onore Filippo V di Borbone istituì il Marchesato di Natahoyo investendone un nipote del maresciallo caduto a Tortona, Carlos Miguel Ramírez de Jove y Vigil (1673-1749).
Spinto dalle circostanze, il comandante avrebbe potuto fingere di negoziare la dedizione della propria piazzaforte: per confondere l’avversario, guadagnare tempo e predisporre una migliore difesa della fortezza stessa.
Questo, però, avrebbe avuto ripercussioni sulle prassi e sulle convenzioni applicate durante un assedio formale: la cosa avrebbe provocato rappresaglie, mettendo a rischio la sua incolumità e quella déi suoi uomini (che, in effetti, perirono quasi tutti al termine della battaglia per il Castello di Tortona).
Nel caso di un progettato tradimento, i sospetti ricadrebbero sul castellano, don Antonio de la Cabra. Sicuramente, dimostrò una maggiore propensione verso la resa rispetto al suo superiore: fu lui a convincere il maresciallo a deporre le armi negli ultimi minuti del combattimento.
La sua permanenza a Tortona, il suo stesso incarico e, soprattutto, il modo con cui lo aveva ottenuto lo legavano alla piazzaforte in modo più durevole e profondo rispetto a Ramírez de Jove.
Nel 1689 don Antonio aveva dovuto investire un cospicuo patrimonio per armare i quattrocentoventi soldati tramite i quali poter ambire alla castellania tortonese. Dieci anni più tardi la cosa si era replicata con la fornitura di altre cinquecento reclute: forse, per consolidare la posizione o per accedere a un incarico migliore.
Il timore di veder sfumare i notevoli investimenti del decennio precedente potrebbe aver spinto l’ufficiale murciano a chiedere di seguire il destino politico della fortezza pur di non separarsene.
Era frequente che soldati disertori o prigionieri si offrissero di passare tra le fila della fazione dominante. Accadde anche nel Castello tortonese. Nel febbraio 1707 alcuni membri dell’ex presidio borbonico detenuti nella fortezza chiesero di essere arruolati nell’esercito imperiale e riassegnàti al servizio di guarnigione: a Tortona e non altrove, perché lì avevano mogli e figlî. È possibile che fossero i sopravvissuti al massacro compiuto sul Colle Savo il 29 novembre 1706.
Luogo:
Tortona (Alessandria, Piemonte – Valle Scrivia, Italia), Parco del Castello di Tortona (Piazza Guglielmo Oberdan/Voltone)
Date:
23 agosto 2015, 7 agosto 2016, 25 giugno 2017 e 14 luglio 2019
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Note:
gli eventi sono stati ideàti e condotti da Davide Tansini, che detiene la paternità creativa dello spettacolo e tutti i relativi diritti; i contenuti da lui illustràti al pubblico durante le manifestazioni sono basàti sugli esiti delle sue ricerche in àmbito storico; Tortona 1706: assedio alla fortezza non è una rievocazione storica con personaggî in costume e animali
© Davide Tansini: tutti i diritti riservàti – Pubblicato il 12 agosto 2015 – Aggiornato al 28 ottobre 2024